“Piuttosto che inseguire un’improbabile felicità è meglio preparare qualcosa di piacevole ricordo per il futuro”, questa una delle recensioni più calzanti per descrivere al meglio il senso del capolavoro del 1974 di Ettore Scola.
C’eravamo tanto amati è stato premiato col Nastro d’argento per i “non protagonisti” Aldo Fabrizi e Giovanna Ralli, Globo d’oro per “miglior attore” a Vittorio Gassman, “miglior attore rivelazione” Stefano Satta Flores, Grolla d’oro al “regista” Ettore Scola e “miglior attrice” Stafania Sandrelli.
Il film ebbe grandissimo successo anche nelle sale italiane e riempì le pagine dei rotocalchi di quei tempi segnando decisamente una rivoluzione nel panorama della commedia italiana per l’innovazione e stile del racconto.
Il ritratto di un’Italia in tumulto ed in cambiamento del film di Scola ricalca una “storia” che sembra ripetersi ai giorni nostri in quanto le trame di partito non sono solo cornice del lavoro parlamentare al servizio dei cittadini ma purtroppo la fanno da padrone, oscurando le priorità del Paese.
L’ultimo intoppo in ordine di tempo riguarda il “mal di pancia” che soffre il Pd, prioritaria forza politica e di governo del Paese, che rischia dopo il roboante massimo storico alle Europee del 2014 (40,8%) di cambiar faccia; un cammino lungo un decennio iniziato a Spello nel 2008 con Walter Veltroni e che ha visto nel “rottamatore” Matteo Renzi l’uomo necessario, forte del 67,5% alle primarie del 2013, per far decollare l’ideologia socialdemocratica europeista anche in Italia.
La scissione di una parte degli iscritti, oltre alle conseguenti implicazioni di ordine governativo, rischia di ridimensionare ciò che il Pd rappresenta anche al Parlamento Europeo come primo partito nazionale per numero di parlamentari e per percentuale di voti ottenuti; all’oggi sono una ventina gli “scissionisti” che reputano il riformismo di sinistra altra cosa rispetto a quel che è diventato il Pd renziano negli ultimi anni, troppo lontano dalle dottrine di Pertini, dall’eurocomunismo di Berlinguer e perfino dall’ Ulivo di Prodi.
Ad aver scosso le fondamenta del Pd non è stata la sinistra “radicale” ormai ai margini e con risultati quasi insignificanti, né i proseliti di una destra ormai orfana del “cavaliere”, né il disegno di qualche “grande vecchio” rottamato, ma forse solo la colpa di non aver “aggiustato” il Pd stesso in quanto il suo ceto dirigente è apparso poco credibile quando ha prospettato grandi cambiamenti nella società e nelle istituzioni.
Nella politica moderna il rinnovamento coincide si in gran parte con il ricambio di una classe dirigente ma l’inadeguatezza in certi ruoli deve essere tempestivamente corretta perché il suo perdurare fa perdere consensi; soprattutto a livello amministrativo come garanzia di buongoverno e di etica qualcosa nel tempo forse è andato storto e ciò ha logorato un sistema fatto di protagonisti e comprimari che sono stati negli anni sempre gli stessi.
Destra storica (1861-1876), Fascismo (1922-1943) e Democrazia Cristiana (1945-1994) hanno segnato gli anni della continuità dei governi del Paese ma ciò sembra essere alle spalle in quanto l’ “alternanza”, dalla discesa in campo di Berlusconi (1994) in poi, ha visto il centro-sinistra esprimere tre presidenti della Repubblica e governato per oltre la metà dei mandati legislativi.
Restare assieme per così tanto tempo logora “anche se c’eravamo tanto amati” e del resto chi semina vento raccoglie tempesta.
Sta quindi iniziando per il gruppo dirigente Pd la sindrome del perdismo? Ossia quel che può impedir loro, subìta una scissione, di archiviarla (e non rincorrerla) per ripartire di slancio verso nuove sfide, senza imballarsi in modo irreparabile?
Giuseppe “vas” Vassura